Le parole e la Parola: il percorso degli incontri degli Incaricati al Metodo
Dal mese di giugno del 2014 abbiamo voluto legare gli incontri periodici dell’Area Metodo con un filo che unisse in un percorso organico i passi del lavoro che facciamo insieme. I nodi di questo filo, le tappe del percorso, sono costituiti da una parola della Scrittura. Ciascuna parola ci offre ogni volta la possibilità di fermarsi ad ascoltare e pregare la Parola da cui è tratta. In più fa da chiave di lettura dell’impegno che dedichiamo al nostro servizio. Costituisce l’approccio peculiare con cui scegliamo di lavorare insieme nel nostro ritrovarci. Le parole via via scelte hanno valore ciascuna per sé, in ragione del suo riferimento alla Parola di Dio, ma anche un senso più ampio se considerate in relazione tra di loro. Dopo poco più di un anno, quattro piccoli nodi permettono già di leggere il percorso con una certa organicità.
La prima parola è beato. Con questa parola si apre il libro dei Salmi, la preghiera di Israele, ’Ashrê ha’ish, «Beato l’uomo…» (Sal 1,1). E con questa parola, con le beatitudini, inizia, non per caso, il primo dei cinque grandi discorsi che articolano il Vangelo di Matteo, il discorso della montagna: «Beati…» (Mt 5). La parola, che siamo soliti tradurre con l’aggettivo beato o felice, in ebraico è in realtà un nome plurale. Felici non si può mai essere da soli. La felicità è un cammino (la parola ’ashrê rimanda ai campi semantici del cammino o del movimento, e ha la stessa radice dei verbi andare e condurre) che si fa insieme. L’altro è all’origine della possibilità stessa di essere felici, insieme. Il salmista, come il sapiente, è particolarmente toccato dalla questione della beatitudine umana, e a questa si sforza di rispondere indicando un cammino verso la felicità. Le beatitudini del Salterio, così come quelle del Vangelo, non sono formule magiche né delle ricette della felicità, ma anzitutto degli inviti a prendere sul serio questa questione e ad impegnarsi per realizzarla.
La seconda parola è il verbo ascoltare. Sull’imperativo Shemà! «Ascolta, Israele!» (Dt 6,4) e sull’accoglienza della Parola, si fonda la fede di Israele. Anche il decalogo di Dt 5,2 si apre con questa parola: ciò che sta all’inizio non sono le cose da fare, lo sforzo dell’uomo verso Dio, ma la disponibilità verso l’ascolto amorevole della Parola. La fede, come dirà bene Paolo, «viene dall’ascolto» (Rm 10,17). Il luogo privilegiato per ascoltare la Parola è il popolo, la comunità che fa memoria dell’esperienza dell’amicizia di Dio realizzata nella storia della salvezza. L’ascolto della Parola è un’impresa rischiosa, che interpella, capace di rimettere in questione la relazione con Dio quando non la vita stessa. L’atteggiamento dell’ascolto della Parola percorre il Vangelo lungo i crinali più suggestivi del linguaggio parabolico e chiama alla scelta, a mettersi in cammino, a trasformare in vita la Parola ascoltata. Alla fine del discorso della montagna, Gesù paragona «chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica» ad «un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia» e colui che invece, pur avendo ascoltato «queste mie parole non le mette in pratica», ad «un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia» (Mt 7,24-27).
La terza parola è ḥesed. La traduzione di questa parola non è sempre facile, abbiamo prediletto per il nostro incontro il termine fedeltà, uno dei possibili aspetti del termine, che altrove può essere espresso anche con amore, misericordia, bontà. Ḥesed appartiene al linguaggio tipico dell’alleanza e dei rapporti che ne derivano e serve a definire o a qualificare le mutue relazioni stabilite tra i partner. Fondamentalmente, ḥesed sottolinea la lealtà, appunto la fedeltà ad una alleanza. Sebbene il significato del termine non tralasci di far riferimento al sentimento e alla disposizione interiore che muove l’azione, non bisogna perdere di vista la sua dimensione concreta: si tratta di un gesto concreto di assistenza e di prossimità, che scaturisce dalla solidarietà che lega alla persona in favore della quale si agisce. L’idea della reciprocità, ovunque presente nell’uso biblico della parola, si trova anche nell’aggettivo derivato ḥasid, fedele. Fedele è colui che si sforza di mantenersi nella relazione vivificante con Dio; questo impegno è possibile a colui che ha prima di tutto fatto egli stesso l’esperienza della fedeltà di Dio.
La quarta parola è ḥadash, nuovo. La scelta del campo semantico della novità si è quasi imposto dopo il termine fedeltà. Una comunità che cammina ha bisogno di dire sempre a se stessa la propria identità. E l’identità è costituita dalla storia, dalle esperienze fondanti e dalle loro narrazioni, nonché dalla fedeltà alla sua origine, alla sua fonte originaria. Ma la fedeltà a se stessi e alla propria vocazione non è una grandezza statica, ma dinamica. Si costituisce facendosi in modo sempre nuovo. Cosicché non esiste vera fedeltà se non nella novità. «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore -, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore -: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ger 31,31-33). Così l’attesa della nuova alleanza annunciata da Geremia prende corpo nella conclusione del libro dell’Apocalisse: «E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,1-2).
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